19 Marzo 2021

Pieve Santa Maria Assunta a Chianni

Se le strade conseguono ai fatti della storia e del determinismo ambientale, è anche vero che la storia cammina sulle strade e sulle vocazioni territoriali. La Valdelsa, per l’uno e l’altro aspetto, si è trovata nel Medioevo, ad essere crocevia delle comunicazioni stradali dell’Italia centrale. Nella divisione territoriale tra Longobardi e Bizantini, si avanzava per i primi la necessità di creare una via di comunicazione interna, lontana dal controllo dei rivali, che tenesse insieme le due aree del loro regno: quella Padana e quella Campana, con centro Benevento. E’ questo il motivo alla base della nascita della Via Francigena, via che ricalca il tracciato della Cassia fino a Bolsena, ma più a nord, proprio per allontanarsi dalle zone di influenza bizantina, si indirizzava verso la Val di Paglia e la Val d’Orcia, per dirigersi dritta verso Siena (Seocine). Superato questo centro, la via più comoda per raggiungere l’Arno risultava essere la valle dell’Elsa, e una volta raggiunto l’Arno e attraversato, proseguire per Lucca dirigendosi al passo della Cisa onde superare l’Appennino. In tal modo questo corridoio si trovò asse importante non solo dei collegamenti longobardi ma anche via di comunicazione normalmente percorsa da chi, pellegrino o meno, da nord, degli Appennini o delle Alpi, volesse raggiungere Roma.

Cessata la dominazione longobarda e annessi i suoi territori al regno Franco, la Valle si trovò al centro di un sistema viario ancora più ampio quale strumento di collegamento dell’amministrazione carolingia. Ed è a questo punto che la strada assunse il nome di Francigena (strada che è originata dalla Francia) e diventa il presupposto dello sviluppo economico e sociale della Valdelsa nel Medioevo.

Ma se questa centralità di un sistema vallivo determinò una contaminazione culturale ed economica in riferimento ai capoluoghi che lo circondavano, ciò non bastò ad evitare che divenisse anche territorio di scontro. Del resto il corso del fiume Elsa segnava, per tanta parte del suo corso, il confine fra due diocesi importanti quali quella fiorentina e quella volterrana. Oltre che in prossimità della sua foce, confinare cn una terza: quella di Lucca.

Nella rivalità e nella concorrenza, altre strade si incrociarono con la Via Francigena, per realizzare un più agile collegamento fra Firenze e Volterra e lungo una di queste, la Strada  Volterrana nord, in prossimità del Castello di Gambassi, dove questa incontra la  Francigena, fu eretta la Pieve di Santa Maria dell’Assunta, nel borgo di Chianni.

Sancte Marie Glan è una delle tappe citate dall’Arcivescovo di Canterbury Sigerico, di ritorno da Roma. Ciò avvenne fra il 990 e il 994 e ci indica che la Pieve doveva essere già presente.

Altri documenti, uno del 1059 e l’altro del 1061 tra il conte Guglielmo e il vescovo di Volterra Guido, redatto a Firenze alla presenza del Papa Niccolò II, fanno riferimento ad un chiostro a fianco della Pieve (intus clostra sancte Marie plebe de Clanni) e ciò prova non solo la presenza dell’edificio religioso, ma anche quella di una vita comunitaria del clero all’interno del complesso, confermando  la sua importanza.

Meno certo è comprendere se l’edificio in questione sia stato preceduto da una costruzione ancora più antica (la pieve vecchia) della quale si fa riferimento in un documento del 1210 che però la riferisce ubicata in un sito diverso. Considerato che il castello nuovo di Gambassi venne edificato a partire dall’anno 1170, alcuni valutano che la Pieve sia stata eretta in concomitanza con lo stesso castello, al tempo del Vescovo di Volterra Ugo e che dunque anche la Pieve di Chianni sia stata spostata nel sito attuale rispetto alla sua sede originaria.

Quello che possiamo affermare è che nella stessa epoca in cui il nuovo castello veniva edificato, venivano avviati anche i lavori di ristrutturazione della Pieve, secondo gli indirizzi costruttivi e linguistici che, per molti particolari, rimandano al Duomo di Volterra, segno evidente della ingerenza del Vescovo in questa operazione. D’altronde le dimensioni inconsuete del suo impianto, l’impronta elegante e di carattere della facciata, nonché l’articolazione del complesso (la canonica è coeva alla pieve) dimostrano il peso e l’attenzione conferito fin dall’inizio all’edificio.

Dunque fra il 1180 e il 1210 la chiesa viene edificata, e non è mancato chi ha visto per la sua costruzione la promozione di Matilde di Canossa (1046-1115) in  riferimento  ad alcuni componenti tematici dello stile costruttivo (i capitelli in particolare) che si riallacciano al linguaggio longobardo. L’edificio però, nonostante la singolarità di alcuni elementi architettonici nonché dei numerosi interventi che nel tempo ne hanno contaminato i profili, rimane un edificio romanico, anche se  appartenente al periodo tardo.

Il suo è un impianto basilicale a tre navate, con transetto allungato (caso assai singolare nelle chiese plebane della Toscana) e una scarsella squadrata (cinquecentesca) a sostituzione dell’abside originaria a semicerchio. Non sappiamo se tale forma deriva da una diretta decisione del pievano Antonio Zeno o da questo diretta nella esecuzione secondo la volontà di Francesco Soderini, Vescovo di Volterra. Incuriosisce la planimetria a forma di croce latina, così come si è venuta a costituire con tale modifica, quasi a lasciare intendere che non si tratti di pura coincidenza, ma dell’affermazione di un principio dei canoni controriformatori. Parallelamente non piò lasciarci indifferenti la sequenza delle colonne, diverse in altezza, nelle linee del disegno e nel materiale.

Chi si occupa di costruzioni sa che l’imposta degli archi soprastanti, richiede una base dell’abaco (capitello) posta sullo stesso piano orizzontale. Ciò  per evitare al sistema di spinte della muratura soprastante uno squilibrio in grado di pregiudicare la staticità della parete. Ebbene, nel nostro caso diverse colonne differiscono tra loro in altezza, tanto che si è dovuto compensare la differenza attraverso i plinti e i capitelli. Questo ci spinge a chiederci quale possa essere la loro provenienza.   Il chiostro precedente al quale fa riferimento il documento?

Se si aggiunge che anche i capitelli segnalano una diversa mano nella loro lavorazione e nello sviluppo del loro disegno, possiamo pensare a mani esecutrici diverse in tempi diversi?

Ma un edificio di questo rilievo non può essere pensato con fasi interruttive lunghe, vuoi per il prestigio, vuoi per le difficoltà esecutive  collegate al le opere in elevazione.

E allora? Rimangono le domande in assenza di documenti che ci informano sulle risorse, economiche e materiali, sulla disponibilità della manodopera, sulla direzione delle maestranze.

Come quando si afferma che i filari di pietra squadrata derivano da sedi locali.

C’erano cave di arenaria sul posto? Ne rimangono le tracce? Altrimenti possiamo pensare che a causa dei costi di approvvigionamento, i fianchi esterni delle navate di valico, realizzate in cotto, possono essere frutto di questa circostanza economica?

Tutto questo campo di domande  alle quali non sappiamo rispondere rende la costruzione ancora più affascinante, perché pensandoci pellegrini di quel tempo, ci piace immaginare  un cantiere in attività dentro il quale uomini con  macchine da lavoro ben lontane dalle prestazioni di quelle odierne, sono riusciti a creare uno spazio magico dentro il quale, a distanza di secoli, si riesce a respirare il rapporto con lo spirito.

Ma ciò che rende davvero singolare e preziosa la pieve è la sua facciata a colmo piatto, insolita rispetto al corrente stile della copertura a capanna, ulteriore segno del suo rilievo territoriale e della sua presenza lungo le tappe della importante via di comunicazione. Quattro autorevoli lesene dividono il suo fronte  secondo le linee delle navate. Entro le due lesene centrali si consumano i tre ordini che con diversa altezza compongono, in bassorilievo, il disegno della facciata. Tale disegno nelle contaminazioni linguistiche che la Francigena trasportava, attraverso le visite e il lavoro delle maestranze, non può evitarci il confronto con esempi più illustri quali il Duomo di Volterra se non addirittura quello di Lucca.

Lungo la sua storia la pieve è stata interessata da diversi interventi che, talora per esigenze strutturali, altri per adeguamenti allo stile dell’epoca, altri ancora per volontà dei personaggi che ne hanno avuto la custodia gestionale tra cui il Comune di Gambassi feudatario del Vescovo di Volterra, ne hanno trasformato momenti e situazioni. Tra le maestranze che lavorarono alla edificazione della pieve figura certo Johannes Bundivulus che ha voluto firmare in un capitello la sua prestazione d’opera. Va notato che nonostante la pieve disponesse di un vasto territorio, non ebbe nella realtà grandi risorse a disposizione  e questo quasi in contraddizione con la ricchezza del suo patrimonio architettonico. Tra i suoi pievani figurano i nomi di Benno di Ugolinello di Ranuccino nel 1182, l’arciprete Jacopo nel 1252, Paganello e Baldone nel XIV secolo. Presso la pieve si trovavano due compagnie, quella della Santa Croce (1348) e quella di Santa Maria riservata ai presbiteri a partire dal1360.

Dal XV secolo i dati relativi allo stato della pieve ci derivano dalle relazioni delle visite pastorali. Sappiamo che la pieve nel 1413 era dotata di cinque altari, oltre quello maggiore, posti quattro nelle absidi incassate nello spessore murario del transetto (caso specifico dell’architettura religiosa volterrana) l’altro, posto all’ingresso della navata di sinistra, in parallelo con la fonte battesimale presente  sul lato opposto. Il documento ci informa  pure sulle condizioni dell’edificio, che denuncia  un  crollo angolare della struttura, riparato nel 1437.

Nel 1465 si dovette invece  intervenire sulla copertura, non sappiamo se per cedimento strutturale  o  per danni causati  da eventi  atmosferici.

Nel 1501 l’edificio risulta fessurato in più punti, ma con ciò siamo giunti ad una data saliente della pieve: quella del 1508 che segnala l’arrivo del pievano Antonio Zeno. Questi, forte dei legami con la famiglia fiorentina dei Soderini, vescovi di Volterra con Francesco e con Giuliano (nipote quest’ultimo di Francesco) avvia opere di intervento consistenti sull’edificio, dato che la canonica è “ruinata e la chiesa tutta in ruina”. Pur disponendo della sola testimonianza di Francesco Simi, suo successore, sappiamo essere stato lui l’artefice del rinnovamento del coro e della sacrestia, in un intervallo durato 13 anni, durante i quali mise mano anche alla risistemazione dell’area battesimale, con il rialzamento del pavimento, del restauro del fonte, citato per la prima volta nel 1465, e della  decorazione delle pareti e della lunetta, con affreschi attribuibili a Raffaellino del Garbo (1466-1524).

Per quanto all’area del coro, va sottolineata la grande qualità della volta a botte rivestita con un ornato a rilievo fittile, attribuito per la realizzazione al gambassino Gagni, in un unicum artistico dell’intero territorio circostante, i cui riferimenti stilistici rimandano alla villa di Poggio a Caiano di Giuliano da Sangallo. Gli arredi lignei della sacrestia e i suoi decori in cotto rimandano alla scuola di Benedetto da Maiano.

Nell’occasione dell’inserimento del nuovo pulpito (15131520), affisso ad una delle due colonne  che separano il transetto dalla navata, vennero mutilati gli affreschi del tardo Trecento presenti su di esse, il che fa presumere che in una data precedente anche le altre colonne potessero essere state affrescate.

La situazione degli altari e dei loro arredi è attestata nelle relazioni delle visite pastorali succedutesi a ritmo ravvicinato negli anni successivi. In quella di monsignor Castelli del 1576, di monsignor Alamanni, nel 1599, di monsignor Inghirami del 1618, dai quali apprendiamo l’assenza di mutamenti significativi, oltre la buona condizione in cui versa l’edificio. Dal documento di quest’ultimo veniamo pure a sapere che il pievano Bonaccorsi aveva sostituito gli altari con altri di diversa impronta e rimosso alcune opere pittoriche annesse agli stessi, oltre ad aver inserito un quadro (Cristo Risorto) opera di Cosimo Daddi.

Nel 1621 al pievano Bonaccorsi succede Bartolomeo di Domenico Pinucci, esponente di una famiglia importante di Gambassi, che in successione col nipote,Tommaso di Leonardo, ricoprono l’incarico per oltre trent’anni.  Il pievano è intraprendente  e mette mano ad una serie di rifacimenti iniziando dall’area presbiteriale, ma estendendola a tutto l’interno, con la volontà di adeguarlo al gusto dominante della Controriforma. A lui va attribuita la commissione di un nuovo tabernacolo  ligneo, opera di un certo Fausto della Tuccia da Volterra, oltre una coppia di angeli cerofori concepiti nella posa alla maniera vasariana. Nel 1623 il pievano crea la Compagnia del Carmine alla quale offre sopra l’altare, una pala di Cosimo Daddi. Destinato alla stessa compagnia il nipote fa erigere un piccolo oratorio, arredato riccamente con un altare e lo stemma di famiglia, adornato con un’opera di Francesco Arrighi ( 1642-1706).

Segue un periodo privo di interventi di rilievo, tanto che nel 1661 nella sua visita il monsignor Albizi resoconta l’assenza di cambiamenti.

Nel 1682  il vescovo Del Rosso offre una lettura  dettagliata  degli ambienti della chiesa,  riferendo di uno stato ben definito nel suo insieme ( in omnis bene, a novissima reastaurazione) con stucchi tardo barocchi alle pareti ed altari schierati simmetricamente sulla testata del transetto. Quello di San Bartolomeo, all’ingresso della navata di sinistra, ben si accoppia con la fonte battesimale su quella di destra. L’interno coniuga armonicamente il carattere primitivo della pieve con lo stile degli interventi rinascimentali, amalgamandosi in un continuum dialogante con gli stucchi del barocco prima e del rococò dopo.

Nel 1686 era ancora presente sulla facciata il rosone simile a quello del Duomo di Volterra, poi trasformato in finestra  nell’anno 1782, in concomitanza di un intervento praticato alla copertura su ordine dell’arciprete Corsi, succeduto al Pinucci.

Nell’anno 1796 segue la visita di monsignor Ranieri Alliata che conferma una situazione buona della pieve. Le operazioni all’interno della chiesa sembrano limitarsi alla rimozione delle opere pittoriche, soggette ad interventi di restauro o di sostituzione con altre più rispondenti ai gusti dell’epoca, se non per lasciare impresso il nome della famiglia patrona dell’opera. Così viene rimosso dall’altare di San Michele  il quadro di  Madonna Assunta alla presenza dei santi Antonio abate, Macario, e Michele Arcangelo e sostituita con quella raffigurante l’Arcangelo in atto di uccidere il demonio, attualmente presente. Analogo provvedimento fu operato nei confronti della tela sull’altare del Battista, raffigurante  la Madonna col bambino alla presenza di Giovanni Battista ed altri santi, sostituita da Madonna col Bambino adorata dai santi Lorenzo, Rocco, Sebastiano, Onofrio, Lucia, Giovanni Battista,copia di Francesco Curradi della più celebre pala di Gambassi di Andrea del Sarto.

Nel 1842 vennero realizzati i contrafforti alla facciata che rischiava di crollare. Nel 1879 la pieve viene dichiarata monumento nazionale e nella revisione novecentesca è riportata, attraverso la rimozione degli altari, la raschiatura degli intonaci barocchi e altre opere di consolidamento, al carattere medievale originario, pur con le sovrapposizioni che i numerosi interventi avevano interessato la struttura durante i secoli.