La Gerusalemme di San Vivaldo
La leggenda dell’eroe percorre la storia dell’uomo fin dagli inizi. Si tratti di un santo o di un cavaliere, di un campione o di un divo, il villaggio o l’intero paese hanno coltivato nel tempo il mito del gesto soprannaturale, miracoloso o sacrifico per il gruppo, per il bisogno di avere intercessori con il divino che li proteggessero dalle paura della morte e dalle malattie, facendo tesoro del contatto con la reliquia, della immedesimazione col gesto, della trasmissione del racconto attraverso l’atto di devozione diventato culto popolare.
Nell’intervallo medievale dei secoli XII e XIII la Valdelsa, causa la presenza della Via Francigena, si è vista attraversare da colonne di pellegrini divenuti, nei viaggi da e verso Roma o Gerusalemme, portatori di racconti a cavallo fra mito e leggenda, riporti ad ogni passaggio accresciuti nella portata del mistero e della meraviglia fino al punto di vederli trasformati in credo. Lungo il tracciato in causa, è stata una fioritura di santi e di beati, basti pensare a Santa Verdiana di Castelfiorentino, Santa Fina di San Gimignano, Beata Giulia di Certaldo, San Lucchese di Poggibonsi ed altri minori (Scipione Ammirato il Giovane parla, in un suo documento del 1637, delle reliquie di ben 42 santi), senza contare della circolazione di racconti che, nelle corrispondenze degli avvenimenti, suscitano qualche sospetto. Si racconta di Sant’Ottaviano che partito dall’Africa approdò a Populonia insieme a Regolo, Cerbone, Giusto e Clemente. Questo presso una località del fiume Nera nel VI secolo. Proseguendo verso Volterra, Ottaviano si fece eremita e scelse come abitazione il cavo di un grosso olmo, dove consumò in penitenza la sua esistenza e dove un cacciatore di passaggio lo trovò morto inginocchiato (corrispondenze sorprendenti con la leggenda di Vivaldo).
La trama della storia interessa uomini e luoghi: luoghi che per loro natura o per apporto degli umani si ammantano di significati e di valori sacrali così che “ogni singola determinazione spaziale può acquistare un particolare carattere, divino o demoniaco, ovvero sacro o profano” ( E.Cassirer). A san Vivaldo si coniugano elementi assoluti come la montagna (scala di ascensione fra terra e cielo) e la sacertà (delitto o colpa contro la divinità consacrato alla vendetta degli dei) con quel senso di numinoso che ci vuole annullati al cospetto di ciò che ci sovrasta tutti.
Tra il 1185 e il 1280 l’area di San Vivaldo era in possesso dei Frati della Croce di Normandia, contesa fra Castelfiorentino e San Miniato appartenenti alle diocesi di Firenze e di Volterra. Secondo un documento dello stesso Scipione Ammirato il Giovane (1582-1656), grande storico montaionese, in “ Vescovi di Fiesole, di Volterra, di Arezzo” riporta che nel 1280 volendo il Vescovo Ranieri provvedere sopra lo stato del luogo, case et possessioni di San Vivaldo diocesi di Volterra, luogo appartenente al vescovado in dotazione ai Frati della Croce già dal 1185, lo dà e lo alluoga in perpetuo per sé et suoi successori nel vescovado, con ogni giurisdizione e ragione ed assegna come confini di detto luogo per tre lati le strade pubbliche presenti e per la quarta la selva di Camporena. A monsignor Giunta pievano di Coiano di detta diocesi e ai suoi successori l’obbligo di pagare ogni anno al vescovado per le feste di Santa Maria di mezz’agosto la somma di lire cinque.
Questo documento che pure esprime in modo esplicito i confini e le modalità d’uso del luogo, non bastò a definire i rapporti tra i comuni territorialmente confinanti con l’area interessata, al punto che non per poco tempo, si aprirono vertenze tra i Comini di Castelfiorentino, quello di Montaione e quello di San Miniato al Tedesco sull’appartenenza della selva e sul protettorato della chiesa e del convento. Nel 1309, secondo un documento di Ugolino di Gasparri Gamucci (1624) dal Consiglio di Firenze furono eletti quattro ambasciatori, due di Castelfiorentino e due di San Miniato al Tedesco per definire la questione dei confini e appartenenza della selva di Camporena così come erano stati esposti nel 1297. Ma le asperità tra le parti si protrassero negli anni con motivazioni che spesso sapevano di provocazione, vista la futilità dei motivi (quale la raccolta della legna secca ) e il ricorso in chiamata al protettore di turno per far valere le proprie ragioni di parte. La disputa si chiude nell’anno 1459, con l’assegnazione dei diritti di giurisdizione sulla chiesa e sull’area
ai montaionesi : Tutti li rappresentanti di San Miniato vennero a san Vivaldo e consegnarono tale romitorio e la selva che ora gira il muro a torno, a quelli di Montajone, concedendogli ancora a medesimi , tutti gli honori che avevano in tale territorio i Samminiatesi, accioccheè potessereo agumentare ( accrescere) tale romitorio; e si obbligarono di più i Samminiatesi di mandarvi la fiera delli sbirri a spese però dei Montaionesi, acciò che si avesse a fare la fiera in pace, e di tutto se ne fece contratto come apparisce all’Archivio di Firenze a Sammiiniato nei loro Statuti a Montajone nella copia.
Ubaldo, o Vivaldo Stricchi, nacque a San Gimignano nell’anno 1260. Sull’esempio del suo concittadino il beato Bartolo, che si ammalò di peste curando gli ammalati nel lebbrosario di Cellole scelse alla morte di questo, da civile terziario francescano, di trascorrere una vita di penitenza e digiuno per onorare il messaggio di Gesù. Il luogo per l’esercizio di tale vocazione penitenziale fu la selva di Camporena, dove visse per più di vent’anni al riparo del tronco di un gigantesco castagno, e dove morì il primo maggio del 1320. Sappiamo, sempre secondo la leggenda, di tanti miracoli compiuti da Vivaldo durante questo periodo e della grande devozione di popolo che maturò nei suoi confronti. Il che spiega, documentato, l’enorme concorso di folla ai suoi funerali e la sua sepoltura sotto l’altare maggiore della chiesa del Castello di Montaione a cui seguì, di lì a poco, la erezione di una cappella (1325) nel luogo dov’era il castagno e dove aveva scontato la sua penitenza fino alla morte. Del castagno non rimasero neppure le radici, tanto ognuno della folla di visitatori in processione continua sul posto intendeva portarsi con sé qualcosa dell’albero come reliquia del beato. Sopra l’altare della cappella a lui dedicata fu posto un quadro di Raffaellino del Garbo (1466, Barberino Val D’Elsa – 1527, Firenze) ancora presente nella chiesa del convento.
Il complesso religioso di San Vivaldo è uno dei luoghi di culto più famosi del nostro Paese e comprende nella sua articolata composizione una chiesa in stile francescano, un convento possente, svariate cappelle adornate con gruppi scultorei, una selva fitta, un monte austero. Il tutto a comporre il Sacro Monte sulla scia di altri complessi religiosi analoghi, realizzati nel nord Italia fra il 1500 e il 1600. San Vivaldo però ha una storia che inizia precedentemente e che risale alla presenza di una chiesetta, quella di Santa Maria a Camporena, diversa da quella che poi diventerà l’ampliamento di quella attuale dedicata a San Vivaldo. Quest’ultima, sorta come oratorio sul posto dove c’era il castagno gigante che l’ha ospitato per oltre vent’anni e dove fu trovato morto il primo maggio del 1320, si è ampliata fra il 1326 e il 1355, consacrata poi il 30 novembre 1416 dal Vescovo francescano Fra Antonio da Prato. La stessa chiesa venne ricostruita e ampliata nel 1426 e affidata ai Frati Minori di San Francesco nel 1497. Il convento è legato alle vicende dell’ordine francescano non solo perché Vivaldo, il santo al quale il complesso è dedicato, faceva parte di quest’Ordine, ma principalmente perché tutta la storia del complesso intreccia la presenza dei Frati con quello delle comunità limitrofe, percorse da frequenti contenziosi non solo per la definizione dell’appartenenza dei luoghi dove il complesso sorgeva,ma anche per il protettorato del convento, oltre che della custodia custodia e della giurisdizione religiosa. Sono loro, d’altronde, che partoriscono l’idea del Sacro Monte locale sullo spirito dei tanti pellegrinaggi che il quel tempo si effettuavano verso Roma e verso la Terra Santa. In un tempo però difficile, soprattutto verso la città di Gerusalemme, caduta sotto il dominio dei Turchi. Parve cosa utile e intelligente, infatti, offrire alla popolazione una meta più sicura e vicina che riproducesse, seppure in scala minore, i luoghi della città santa.
E questo fu realizzato con l’impegno dei frati e l’aiuto della popolazione, attraverso la costruzione del convento di circa 25 cappelle che riproducevano le tappe della vita e della passione di Gesù.
Gli ideatori del progetto furono due frati, Cherubino Conzi, primo padre guardiano e Fra Tommaso da Firenze che gli succedette. Nella impresa, come dicevamo, furono aiutati anche dagli abitanti del luogo che trasportavano le pietre necessarie alla costruzione dalle non lontane rive del fiume Egola. L’opera fu riconosciuta dal papa Leone X (bolla del 16 febbraio 1516) che concesse le indulgenze a coloro che sarebbero andati a pregare presso il convento. Sappiamo delle capacità progettuali di molti frati inventori, costruttori e architetti di impianti conventuali, monasteriali, di grande complessità e ingegno. Anche Fra Tommaso produsse tale risultato qualitativo, traducendo nella costruzione l’esperienza e le nozioni dei suoi viaggi in Oriente e in Terra Santa. Attraverso la topografia e l’orientamento astronomico, gli fu permesso di erigere in scala i suoi edifici a immagine di quelli di Gerusalemme, in contatto e con il confronto di frate Bernardino Caimi, impegnato in quel tempo a progettare il Sacro Monte di Varallo. Sulla base concettuale del rispetto dell’orientamento originale dei luoghi santi gerosolimitani scelse i quattro cardini dell’impianto ponendo a est del convento la valle boscosa presente in assonanza con la valle di Giosafat e il fiume Cedron, a sud il rilievo esistente come punto ideale per rappresentare il Monte degli Ulivi, a nord il ripiano naturale che doveva corrispondere alla Spianata del Tempio, a ovest la collinetta che veniva a costituirsi come il Monte Calvario. In mezzo a questi assi cardinali la distribuzione delle cappelle secondo gli episodi di vita e della passione di Gesù.
All’opera dei due francescani si affiancò quella di Benedetto Buglioni anche lui viaggiatore della terra Santa e dell’isola di Creta ed è a lui che si deve la Gerusalemme di San Vivaldo, attraverso la realizzazione delle prime due cappelle nei primi anni Cinquecento e il completamento delle altre entro il 1515. Pensiamo con ciò si faccia riferimento alla realizzazione delle opere scultoree, dato che la parte architettonica viene altrove attribuita ai frati Tommaso e Conzi. Alla realizzazione delle opere scultoree partecipano allievi della scuola di della Robbia e lo stesso Buglioni, che aveva appreso ad invetriare le terrecotte dagli stessi maestri. Nell’ambito delle leggende che contribuirono ad ammantare il luogo del suo carattere magico, circola anche il racconto che dopo la morte di Vivaldo una gran folla andasse a visitare, per curiosità o devozione, il luogo dove quest’ultimo era stato trovato morto. Man mano i pellegrini diminuirono ed aumentarono i profani, ed in tale contesto molti attori si apprestarono a rappresentare la vita di Gesù costruendo anche alcune cappelle. Il successo fu tale che contadini e pastori arrivarono da ogni parte per assistere alle loro rappresentazioni e con essi giunsero anche i mercanti presi a vendere i loro prodotti ai visitatori. Nella trasformazione da Sacro Monte a mercato, una sera un grosso temporale irruppe sul luogo creando un fuggi fuggi generale. Gli attori si ripararono nelle cappelle per continuare la loro recita ma quando, cessato il temporale, i visitatori e i mercanti tornarono sul posto per riprendere le loro visite e la loro attività, trovarono gli attori pietrificati dentro le loro cappelle.
Nel 1722 il convento fu dichiarato “Ritiro per castigo di Sacerdoti” da papa Innocenzo XIII e dal Granduca Cosimo III.
Nel 1865 vengono ricordate dai documenti 28 cappelle, ma nel seguito alcune andarono perdute a causa della incuria e delle difficoltà del terreno franoso, ed altre se ne aggiunsero per volontà di privati e religiosi. Questo patrimonio, arricchito dal valore delle sculture robbiane interne, ha richiesto risorse non indifferenti per il suo mantenimento e per quello degli edifici che lo contiene. Condizione non sempre alla portata del personale che se ne doveva prendere cura.
Se poi pensiamo ai danni arrecati dai terremoti (1591), a quelli naturali delle condizioni atmosferiche, nonché a quelli degli uomini (Napoleone Bonaparte con l’editto del 13 ottobre 1810 soppresse la proprietà del convento per consegnarla ai conti Bardi) comprendiamo quanto impegno comporta il restauro, la cura, il mantenimento e la custodia di un bene di questo valore. Impegno che dovremmo tutti assumerci come custodi responsabili di valori culturali che ci hanno consegnato, con l’incarico di preservarli per quelli che verranno.
Nel 1887 la proprietà tornò ai frati francescani. Nel 1906 le reliquie del santo tornarono al convento e papa Pio X, su interessamento di Padre Faustino, attestò attraverso un documento l’approvazione del culto di Vivaldo, conferendogli il titolo di Santo.
Tra il 1971 e il 1976 le cappelle, tornate nelle mani della soprintendenza, ebbero l’ultimo importante restauro.
Vincenzo Mollica