30 Giugno 2021

Chiesa dei Santi Jacopo e Filippo a Certaldo

Ci sono città che progettano i binari della storia, altre che diventano le stazioni di arrivo e di passaggio. Dobbiamo riconoscere che il più grande capolavoro di Firenze non sono i suoi tesori artistici, pur indiscutibili nei loro valori assoluti, ma l’essere riuscita a guidare l’espansione della repubblica conquistando territori (<< così cominciò il Comune di Firenze a distendersi, e colla forza che con ragione, crescendo il contado, e disfacendo fortezze…>>, Villani) , e governandoli per secoli con la forza di una rete persuasiva e sapiente capace di trasformare i conflitti storici in riconoscimento e le distanze politiche in relazioni di carattere costruttivo.

Certaldo (Cerrus Altus) è una stazione significativa di questa storia, che si compone di rapporti ora travagliati ora fruttuosi con la città della repubblica, comunque tali da non consentirle lungo il percorso storico, una autonomia politica o permetterle di diventare un libero Comune. Basta in tal senso annotare, prima la sua progressiva sottomissione a Firenze dopo l’assedio di Pogni del 1184, e poi la concessione nell’anno 1415 a sede vicariale che fa di questo centro per quasi quattrocento anni (fino al 1784) una sede di potere politico, amministrativo e giudiziario, il più importante della Valdelsa e della Val di Pesa, al punto da vantare nel 1575 la presenza di un ospedale e di una scuola aperta fino al 1632.

E’ anche vero che a partire dalla data della soppressione del vicariato, per opera di Pietro Leopoldo di Lorena, Certaldo viene aggregata alla podesteria di Castelfiorentino che a sua volta dipende dal tribunale di San Miniato e concentrare le sue attività o le sue riserve di sviluppo sulle lavorazioni manufatturiere legate alla trasformazione e allo sfruttamento dei prodotti del suolo ma anche alla nascita, nella pianura fra l’Elsa e l’Agliena, del paese basso (Borgo) che attira a sè parte dei mestieri e ne sviluppa altri sulla base di una viabilità commerciale di valle, quale la via Francigena che diventa motore di scambio economico e commerciale oltre che di informazione.

La chiesa dei Santi Jacopo e Filippo prima intitolata a Jacopo e Michele, fu eretta come Priorìa della Pieve di San Lazzaro a Lucardo agli inizi del XIII secolo. Anche se alcuni autori anticipano la data della sua costruzione alla fine del XII secolo. E’ certamente da approfondire la ragione di due chiese coeve, quella di cui trattiamo e quella dei Santi Tommaso e Prospero, entrambi di architettura romanica e distanti pochissimo una dall’altra sebbene la seconda (quella di San Tommaso) venga assunta come la più antica del castello e forse nelle proposizioni la più importante, considerate le sue dimensioni e la sua tipologia a croce latina, che ne facevano altro impatto ai fedeli rispetto alla aula unica di San Jacopo. Purtroppo errati calcoli dei costruttori  circa il peso dell’opera, oppure un naturale cedimento del terreno, hanno portato alla rovina di tutta la parte del transetto, abside compreso, ma con l’interessamento anche di due lati del chiostro riducendo l’impianto, pur ricco dei suoi tesori interni (presenza di affreschi di notevole fattura oltre al Tabernacolo dei Giustiziati di Benozzo Gozzoli) ad un aula unica e mozza. La prima, la chiesa di San Jacopo nasce come Priorìa della Pieve e ospita nella fase medievale una comunità di canonici, divenendo dal 1422 sede di  un  ordine agostiniano che la occupò fino al 1783, quando venne soppressa per ordine di Pietro Leopoldo, consono all’accentramento di uffici e parrocchie. L’ordine degli Agostiniani si adoperò non poco per codificare il culto della Beata Giulia, deceduta nel 1367 e sepolta nella stessa chiesa, esercitando un vero e proprio controllo delle zone di appartenenza territoriale al punto da suscitare non pochi contrasti, non solo con la chiesa vicina di San Tommaso, ma anche con la Pieve matrice di San Lazzaro, sostenuta quest’ultima dalla patente famiglia dei Gianfigliazzi, proprietaria del castello di Santa Maria Novella. Situazioni conflittuali tra ordini religiosi? Spartizioni delle prebende? La chiesa in affianco alla via Boccaccio, strada – piazza del castello sulla quale originariamente si aprivano i due ingressi, quello detto “delle donne” ed evidentemente l’altro per gli uomini, fa parte di un complesso più ampio che comprende una canonica, oggi Museo di Arte Sacra ed ex convento, oltre un elegante piccolo chiostro. Quest’ultimo è venutosi a costituire tra il fianco sinistro della chiesa, (quello dell’ex convento) ed il fronte della sacrestia con un’apertura spaziale e visiva verso un orto, riserva alimentare storica, indispensabile per ogni situazione. E’ spiegabile l’attenzione e il controllo dei frati ad ogni centimetro di superficie di loro appartenenza in un luogo, il castello,  dove ogni palmo di terra diventava prezioso per rispondere ad ogni funzione vitale. E’ noto che l’attuale piazzetta di San Jacopo e Filippo era un tempo l’area cimiteriale del convento e che l’apertura dell’attuale ingresso su tale lato, risale al 1633 con una tettoia funzionale ma esteticamente discutibile. La sua sala ampia e austera nella spazialità, spoglia di ornamenti, è disegnata dalla cortina di mattoni riportati a faccia vista dopo che il proposto Pieratti nel 1900 e i restauri degli anni Cinquanta del secolo scorso, l’hanno ripulita delle decorazioni presenti compreso  il Cristo nella Mandorla di Galileo Chini riportato nell’abside. Nel 1963 la Soprintendenza ai monumenti di Firenze provvedeva a smantellare la Cappella della Beata Giulia realizzata nel 1856 per restituire al chiostro il suo spazio originale.

A proposito di tale cappella, va rilevato che essa venne edificata in onore della Beata ed in occasione delle feste per aver debellato il colera da Certaldo. Il progetto venne affidato all’architetto senese Giuseppe Pianigiani il quale, pur adempiendo all’incarico, aveva con l’ingombro della cappella, tagliato in due tronconi il piccolo chiostro trapezoidale dove la cappella era posta. I restauri “puristi” del dopoguerra hanno riportato il chiostro agli spazi originali, demolendola e recuperandone gli arredi. Nell’occasione si intervenne anche sul campanile rimuovendone il coronamento in stile neobarocco e sostituendolo con una cuspide piramidale ormai inseritasi nello skyline di Certaldo alto.  Il confronto che si ricava dalle immagini, tra gli spazi decorati della chiesa e quelli scarni restituitici dall’intervento della Soprintendenza, ci riporta a due concezioni dello spazio liturgico differenti: quello più festoso e appariscente dei decori e degli stucchi, e quello nudo e solenne delle chiese romaniche prive di altari e caratterizzati da una compatta cortina in cotto interrotta da poche monofore di forma stretta e allungata, destinate ad offrire una illuminazione morbida e adatta alla contemplazione. Il tutto chiuso da una copertura a capanna sorretta da una struttura lignea segnalata da importanti capriate. Un volume disegnato, si potrebbe dire, con pochissimi materiali: il cotto, il legno e l’arenaria. Ciò come ci viene evidenziato per ogni edificio del castello, vista la disponibilità dell’argilla rispetto alle cave di pietra più difficoltose nel reperimento.

All’interno della ampia aula della chiesa sono presenti poche cose, come a segnalarne la loro preziosità:

  • un cristo ligneo del tipo Triunphans con gli occhi spalancati e di grandi dimensioni ( 2,20 x 2,05 metri) proveniente dalla chiesa di San Pietro a Petrognano di scultore toscano e databile 1240 -1250 circa;
  • la sepoltura della Beata Giulia. Le spoglie mummificate della Beata, patrona di Certaldo, sono custodite a vista dentro una teca di vetro sotto una nicchia a forma di altare sovrastato da una predella che racconta i suoi miracoli. Giulia della Rena nacque a Certaldo nel 1319 da nobile famiglia originaria di Semifonte, trasferitasi nel castello quando i fiorentini distrussero la loro città ribelle nel 1202. La perdita dei beni produsse anche il decadimento della famiglia e quando scomparvero i genitori, la fanciulla fu costretta ad andare a servizio presso la famiglia fiorentina dei Tinolfi con i quali risultava imparentata. Nel 1337 prese l’abito delle Terziarie dell’ordine degli Agostiniani e ritornò a Certaldo dove si dedicò alla vita contemplativa facendosi murare in una celletta, impressionante per le sue dimensioni ( 2 mq circa) e dove morì nel 1367 all’età di 48 anni;
  • la sepoltura del più illustre cittadino Giovanni Boccaccio, segnata da una lastra tombale in bassorilievo di Mario Moschi, scultore di Lastra a Signa (1869, Firenze 1971), replicante nell’effige l’affresco di Andrea del Castagno, nonostante che il punto esatto della sepoltura pare essere quello segnato da una mattonella di marmo al di sopra della lastra stessa. Alla stessa altezza della lastra, proseguendo verso l’altare sulla parete di sinistra, si trova il cenotafio del poeta con l’epitaffio di Coluccio Salutati che riporta i quattro versi dettati dallo stesso poeta per la sua morte. Sopra di esso, un busto realizzato da Giovanni Francesco Rustici nel 1503 su incarico del vicario Lattanzio Tedaldi che coglie il poeta in una forte caratterizzazione psicologica;
  • oltre il gradino presbiteriale, ai lati dell’altare, sono presenti due raffinati tabernacoli Robbiani. Quello di sinistra ricco di decorazioni finissime commissionato dal vicario Ludovico Pucci nel 1499 e riportante oltre le figure del Bambin Gesù e di vari angioletti, anche lo stemma della famiglia; quello di destra, senza data, commissionato dal vicario Ristoro di Antonio Serristori con una composizione simile e anch’esso riportante il marchio di famiglia. Sul fianco di destra in prossimità della uscita delle donne, una splendida pala in terracotta invetriata della bottega dei Della Robbia, proveniente da San Martino a Maiano, raffigura la Madonna della Neve con i Santi Antonio e Bernardo;
  • notevole per fattura, un importante fonte battesimale in marmo bianco posto in prossimità dell’ingresso della piazzetta recante la data del 1572;
  • in una nicchia sul lato sinistro appena dopo lo stesso ingresso, nicchia scoperta nel 1861, figura un bellissimo affresco recentemente attribuito a Memmo di Filippuccio, pittore duecentesco, che raffigura una Madonna in trono con Bambino fra i Santi Jacopo e Pietro. L’anagrafe del pittore, il linguaggio della rappresentazione e la figura del santo Jacopo ci aiutano a datare la costruzione e la intitolazione della chiesa. Interessante nell’affresco la presenza della figura del committente, una signora nobile inginocchiata e più piccola rispetto alle altre figure, secondo la rappresentazione gerarchica tipica medievale che si modificherà con l’arrivo del Masaccio. La nobildonna ri-vestita nel percorso con l’abito monacale di Santa Verdiana, ha ritrovato nel restauro i suoi abiti originari.

Contiguo alla chiesa è presente un piccolo chiostro di forma trapezoidale, elegante nelle proporzioni e di bella fattura nell’armonia dei materiali. Il pozzo centrale conferma una delle ragioni ubicative del castello: la presenza dell’acqua nel sottosuolo.

Sviluppato su due livelli e postumo alla datazione della chiesa, anche se realizzato nel periodo romanico tardo (fine XIV secolo), il portico è stato ripristinato negli anni Sessanta demolendo la cappella della Beata che lo divideva in due tronconi. Di notevole effetto, la prospettiva spaziale derivata dalla irregolarità della sua forma. Nell’angolo destro della base lunga del trapezio, attraverso una scaletta, si accede alla cella di Giulia e davvero fa impressione la ristrettezza di questo volume (un ripostiglio) dentro il quale una persona, per scelta penitenziale  ha deciso di trascorrere trent’anni della propria vita.

Elegante e sorprendente l’accostamento delle colonne in cotto completate da capitelli di raffinata fattura in pietra, ognuno differente dall’altro, e sui quali riposano leggeri gli archi a tutto sesto delle volte a crociera che accompagnano il loggiato, filtrandone il soleggiamento. Articolate e ben restaurate le sale e salette conventuali che ospitano il Museo di Arte Sacra, ricco di arredi lignei e reliquiari intagliati oltre candelabri, ostensori, paramenti liturgici, provenienti da varie chiese vicine insieme ad importanti tavole trecentesche di autori insigni come Puccio di Simone, Ugolino di Nerio, Maestro del Bigallo, Meliore, Cenni di Francesco. Tali ambienti filtrati nella luce, affacciano su un mondo di serenità collinare al riparo delle mura del castello.

 

Immersi nell’atmosfera del castello medievale, sopraelevati dalla prospettiva delle colline di contorno, più alti rispetto ai suoni della pianura che si smorzano nelle curve di livello, si può rivivere, risalendo le pietre che conducono alla porta degli Alberti, l’atmosfera del tempo con le voci dei suoi abitanti e lo scambio relazionale dei mestieri che disegnavano le loro giornate. E’ una lezione di storia e una pausa necessaria nella vertigine insensata del nostro smarrimento odierno.

Un luogo intessuto di eventi con echi vicini e lontani, che rimbalzano dai sestini delle strade e dagli stemmi vicariali del Palazzo Pretorio.

Un bene da custodire con cura, perché integro nel suo messaggio di scala urbana, a confronto della disintegrazione urbanistica e sociale che ci segnala l’avvento di un tempo scevro di pensiero.